Salutavamo l'inverno come fosse un vecchio stanco che bofonchiava, a male parole, quanta poca voglia avesse di tornare alla successiva stagione. Ma nessuno ci pensava, non più, quado la primavera aveva inebriato ogni cosa dei suoi profumi.
Da compare Bertoni si diceva addio al freddo che se ne andava con un preciso rituale. Lo facevamo nei giorni di fine febbraio, quando l'inverno fortunatamente sembrava un ricordo ormai sbiadito e i primi bagliori di un sole infuocato scaldavano l'aria del pomeriggio. La si poteva masticare lenta, più rarefatta.
Il vecchio Uberto ci faceva riunire tutti davanti al grande albero di fichi che torreggiava proprio di fronte a casa sua. Era maestoso e dovevo sollevare la testa fin quasi a farmi dolere il collo, per poterlo vedere in tutta la sua grandezza. Il trono nodoso si avvitava su se stesso in miriadi di giri. Uno per ogni anno che aveva trascorso ben piantato in quella terra, a vegliare sulla casa del signor Bertoni, e su tutti quelli che vi avevano vissuto, generazione dopo generazione.
Non so bene perchè quel preciso rituale, così carico di aspettative, si dovesse svolgere ogni anno proprio sotto l'albero di fichi di quel vecchio brontolone. "Un albero di fichi è un albero di fichi", mi ripetevo, considerandoli tutti uguali. Quindi, per quanto mi riguardava, poteva andare bene anche quello del mio giardino. Al mio paese, però, anche le cose, così come le persone, avevano una precisa collocazione nello scacchiere della vita e del destino. Un ruolo ti si appiccicava addosso come una seconda pelle, e il ruolo del vecchio Bertoni e del suo albero di fichi era scacciare l'inverno. Punto e basta.
Così, quel diavolo di un brontolone brandiva una grossa verga e iniziava a fustigare la povera quercia, prendendola ben bene a nerbate. A ogni colpo un rantolo secco si accompagnava al frusciare delle fronde. Come se il povero fico biascicasse davvero per le frustate prese.
Io e Pietro, mio compagno di giochi e di avventure, socchiudevamo un occhio a testa, per partecipare al dolore del vecchio albero, ma con quello rimasto aperto stavamo ben attenti a osservare l'aria intorno. Perchè il vecchio Uberto diceva che lo spirito dell'inverno si sarebbe levato alto in cielo, colpito dalle sue sferzate burbere. Così, con sguardo vigile, ci aspettavamo di vedere da un momento all'altro un qualche essere soprannaturale che fosse fatto di vento e profumasse di mele renette e di muschio, pronto a levarsi in cielo e a lasciare spazio allo spirito giulivo della primavera. Qualche donna si lasciava scappare anche un segno della croce, mentre Uberto compiva il prodigio, e anche un amen, ché tanto un po' di pagana religiosità non poteva certo guastare. Quella volta, le botte del signor Bertoni erano davvero bastate, perchè di giorni di freddo e gelo non ne avevamo più avuti.
Rosa Ventrella - Il giardino degli oleandri
Immagine: L'abero del fico secco - James Tissot
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