mercoledì 30 ottobre 2013

Notte con le sirene - Guelfo Civinini

Al tempo del mio volontario e felice confino in quel caro selvatico borgo sul mare di Maremma, Stefanaccio detto Bugliòlo, vecchio pescatore ridotto a fare un po' il barchettaiolo, un po' il rematore di tartarone, finì per confessarmelo, una sera che era meno briaco del solito e la chiacchiera gli dava nel poetico.
Certe notti, per questo mare qui attorno, si sentono ancora cantare le sirene. O, se non proprio sirene, Dio sa che, o lo sa il Diavolo - diceva Stefanaccio segnandosi.

La verità è che alle volte, certe nottate calde, quando va giù la luna e il mare s'accalmisce che pare un'acqua di stagno, e si fa attorno un buio che non ci regge la pipa accesa, e un silenzio che a trovarcisi in mezzo così fermi, sotto quelle vele morte che ti ciondolano sul capo, mette quasi paura, un silenzio in cui sembra di sentire persino il ronzio delle stelle che si staccano dal cielo; alle volte, se uno tende bene l'orecchio, si comincia a sentire una musica di voci e zufoli, lontana lontana, leggera...
-Sa quando in palude il vento passa fra le canne e i falaschi e sembra che suoni l'arpa, e che l'anime sante si mettano a cantare? Ha sentito mai? Immagini qualcosa così...
S'era seduti dopo cena sul muricciolo della rampa che sale dal porto vecchio, nella parte più in ombra, lontana dai lumi delle trattorie e dei caffè. Seduti come noi in fila sul muricciolo altri vecchiotti da tartarone con in capo il berretto col pompò e i pantaloni a pezze chiare e scure lucidi d'untume e di catrame, fumavano la pipa e sonnecchiavano. A bassa voce, per non farsi sentire da loro, Stefanaccio continuava:
-...Qualcosa così. Ma vento non è, ché non viene una bava. Marinai morti nemmeno, ché noi si canta in un altro modo. E poi, invece di cantare, pace a loro, piangerebbero. Allora? Certo, canto di vivi, o di essere come me e lei, non lo è. Più che con gli orecchi sembra di sentirlo con l'anima... Ma bisogna essere soli, a sentire. Certe notti di paranza che non si può dormire e si sta buttati a prua su un fascio di cordami, a pancia all'aria, mentre invece i compagni stesi qua e là dormono sodo, ecco che a un tratto incomincia... Viene di lontano lontano, ma non sai di dove. Alle volte pare che scenda giù dal cielo, alle volte che salga dal mare dove è più fondo... Certo è qualcosa d'incantato: però, benigno. Ma se svegli qualcuno per dirgli "senti", è finita. Quel cantare, che era per noi soli, subito si cheta... Davvero ci crede, lei, alle sirene? Allora son quelle. Una di queste notti di tempo bono, e vuole, si va fuori col gozzo grande del mi' nipote, e vedrà che le sente. A meno che non l'abbiano fatte scappare questi motoracci e il puzzo della nafta. Ma qualcuna ci dev'essere sempre, e appena che veda una vela, una vela in giro di notte come non se ne vede più, è sicuro che si fa sentire. Quanto a lasciarlo solo quando sarà il momento, lasci fare a me. Porti a bordo un paio di fiaschi, e se fo tanto di chiudere gli occhi non mi sveglia più che il sole alto. A manovrare la vela ci penserà da sè. Con questi scirocchetti, è facile. Venga, via. Parola di Bugliòlo, resterà contento.
Stefanaccio si chetò e accese la pipa aspettando. Io non rispondevo.
-Allora? Si va?
-M'invogli, Stefanaccio...

Continuava la notte dopo l'aria tiepida e molliccia del tempo di scirocco. Sui monti della costa di Maremma, gravavano foschie grasse a nascondere le stelle. Un po' di sereno s'apriva invecesull'Argentario, che profilava le sue cime sul chiarore lasciato nel cielo dalla luna già declinata di là dal versante di libeccio. Seduto su uno dei pilastri di ormeggio alla riva dei pescatori aspettavo.
Come l'avesse chiamato la campana che suonava mezzanotte sul porticciolo del paese, il gozzo arrivò portato a remi da Stefanaccio scamiciato. Era una notte calda e calma, con in cielo appena un falcetto di luna. Saltai dentro e si filò via. Stefanaccio non parlava. Remava forte e pareva imbronciato. A un tratto brontolò:
-Sa, sono venuto proprio perchè lei è uno che mi va a genio... E anche per quei due fiaschi di vino che mi ha mandato, e che son qui sotto... Ma forse ho fatto male.
Alzò i remi, e lasciò che la barca andasse da sè, e mi guardava scuotendo il capo.
-Perchè, Stefanaccio?
Si alzò per sciogliere la vela, ché ora si sentiva alle gote un fiato di frescura, e a bassa voce rispose: -Perchè certe cose ci si tengono per noi.
Sciolta, la vela diede tre o quattro schiocchi e si gonfiò. Il gozzo filò, pieno di fremiti. Per più di un'ora bordeggiammo al largo della costa. Poi doppiata una punt, il falcetto di luna si tuffò, e quasi subito il vento andò giù. L'acqua si fece ad un tratto ferma e lucida, e il gozzo, con la vela tutta afflosciata, appena ci si dondolava sopra.
-La notte è buona, - fece Stefanaccio, - soltanto, le sentirà lei... Per me è finita. Era un segreto, e l'ho tradito: una virtù che avevo, e l'ho data via per un po' di vino. Era come un occhio aperto in Paradiso. E' venuto il Diavolo, e me l'ha fatto chiudere... Ci crede lei alle sirene? Per me ora son tutte balle. Meglio beverci sopra.
Tirò fuori di sotto la panchetta di poppa un fiasco già incignato, e cominciò a vuotarselo in gola a garganella: e  non smise finchè non fu vuoto. Dopo un po' russava in fondo alla barca. 

Il mare ora non aveva più un'increspatura, c'era intorno quel gran silenzio marino e stellare che Stefanaccio aveva ricordato e che davvero mette nell'anima un vago senso di sgomento. Per un po' cercai di governare la vela e di tenere il timone. Ma con quel cencio morto che pendeva giù dall'albero non c'era nulla da fare. D'altronde, vedevo che il gozzo anche senza vela nè remi e n'andava alla deriva per conto suo. Forse l'aveva preso una corrente. Meglio lasciarlo andare. Era notte di avventura. 
Mi sdraiai su una traversa, con la giacchetta arrotolata sotto il capo, e chiusi gli occhi anch'io, aspettando. In quella gran pace quasi subito mi assopii. Ma fu un sonno breve. Di colpo qualche cosa che non capii mi svegliò. Guardai attorno. Vicinissima era una costa rocciosa che ben conoscevo. S'apre fra quegli scogli una grotta in cui il sole al tramonto, attraverso uno stretto varco, infila fasci di spade d'oro nel risciacquio di una soluzione di smeraldi. La barca, come fosse attaccata a rimorchio ad una cima invisibile, si avviava dritta e leggera verso l'apertura della grotta. E di là, col cuore che mi balzava in gola, sentii venire quel qualcosa che mi aveva destato, e che era un canto. La grotta cantava.
Cantava, e c'era dentro come una diffusa luce di stelle. La barca scivolò nel varco, si fermò contro una svolta della roccia. La cavità della grotta mi rimaneva celata. Ma giungeva riflessa, fino agli scogli, che incombevano sul mio nascondiglio, quella vaga luce siderale che doveva venire dal fondo, donde il vago canto irraggiava empiendo di spasimo tutta la grotta. Canto vero, umano o superumano che sa, che al risciacquio delle piccole onde quiete ciangottanti contro la roccia si mesceva e si fondeva con armoniosi intrecci di voci senza parole, ma pur sensibilmente femminee, trastullantisi in un gioco spensierato, festoso e malinconico insieme, di gorgheggi appena accennati e subito rattenuti, di onduleggianti cantilene a bocca chiusa, di accorati accompagnamenti mugolati in sordina. Scroci e sgocciolii argentini di piccole risa trillate sommesse si sfrangiavano e si sgranavano a tratti sulla fluttuante orditura del canto, a dar certezza della favolosa presenza. 
Le sirene erano lì, a poche bracciate da me e da Stefanaccio addormentato. Ora ne ero certo, e non so dire che m'avessi dentro. Comunque non stupore, nè tanto meno sgomento: un sentimento, se mai, di ansiosa estatica attesa, misto di tristezza timorosa, come quando nei sogni ci esaltiamo di una raggiunta felicità, e ad essa ci abbranchiamo lottando contro il risveglio che ce la distruggerà.
Assorto nel prodigio, la mente a poco a poco si abbandonava ad una specie di pigrizia beata, in cui si agitavano appena spunti di pensieri vaghi, inconseguenti, fugaci.
Miseria! Stefanaccio, che fino allora era rimasto steso sul pagliolo come un morto, si rivoltò ad un tratto grugnendo e gemendo ed esplose, senza svegliarsi, in un grido formidabile. Di colpo si fece buio, il grande deserto buio marino, tacque ogni cantare, rimase soltanto il ciangottare dolce e stanco delle piccole onde contro la roccia tenebrosa.
Ebbi, come nei sogni, la sensazione dolorosa del risveglio. Forse fu così? Forse. Certo, come al dileguarsi della sognata felicità, mi sentivo ora sconsolatamente misero. Pian piano, puntando le mani agli scogli, feci scivolare la barca all'aperto, afferrai i remi, mi buttai al largo. Stefanaccio dormiva sempre, e aveva ripreso a russare a piena orchestra. Quando fummo lontani da terra mi stesi accanto a lui, stanco ed assonnato, in fondo alla barca ferma sull'acqua oleosa, e mi riaddormentai.
Mi svegliai a giorno chiaro. Il gozzo era ancorato al ghiaietto di una caletta, tutta verde in giro in giro di una macchia bassa di lillatri e di corbezzoli, dove il vento l'aveva spinto. Stefanaccio in piedi in mezzo alla barca si tirava su le brache e rideva. 
-L'hai sentite le sirene?
-L'ho sentite sul serio, Stefanaccio. 
Mi guardò incerto, vide che non ridevo.
-Allora... vuol dire che ci sono proprio.
-Per me, sì.
Ora mi guardava ansioso.
-Ma davvero? E dove erano? Mi racconti...
-Che dicesti, tu iersera? Certe cose si tengono per noi...
Si strinse nelle spalle, non disse altro. Salpò l'ancorotto, si mise ai remi. Fuori, sciolse la vela. Una sbuffata di ponente accelerò il ritorno verso il mondo di tutti e di tutti i giorni.

Da "Maremma dolce e amara" - Guelfo Civinini
Immagine: Mermaid lovers - Victoria Francés

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