Di seguito sono riportate testimonianze raccolte da Roberto Cominetto tra il 1998 ed il 1999. Leggende e storie autentiche, nostalgiche, di un tempo che pare non appartenerci più.
Foto da Turismotorino.org - Burolo |
Diego LAMBERT - classe 1932 – Burolo (To)
Lo stagnino Flip e la balena
Tu devi sapere che una volta, qui a Burolo, veniva uno stagnino di nome Filippo (Flip), era vestito di nero ed aveva due baffi lunghi.
Si metteva in Piazza, toglieva 4 o 5 pietre dell’acciottolato (sterne), accendeva il fuoco e montava il suo armamentario (barachin), noi bambini eravamo tutti lì a guardare cosa faceva questo stagnino.
Si portava dietro tutte le pentole e pentolini che la gente gli dava da sistemare, allo stesso tempo era a disposizione per chi voleva portare il paiolo bucato al quale metteva un chiodo di rame o lo stagnava all’interno.
Noi bambini stavamo a guardare e volevamo dargli una mano, montava un soffietto poi una staffa e con un bastone la muoveva e faceva aria sul fuoco; noi eravamo lì pronti per dargli un aiuto perché, più il fuoco era grande più a noi piaceva.
Correvamo solo per vedere quelle cose, sul fuoco si metteva un po’ di stagno e veniva quella fiamma un po’ blu, un po’ rossa, un po’ di tutti i colori: era un cosa bella da guardare.
Filippo veniva a Burolo, Bollengo, Chiaverano, da tutte le parti e per queste vicende mio nonno mi raccontava la storia di Filippo (storia ad Flip) e mi diceva: “tu devi sapere che un anno che era tutto allagato (per le grandi piogge), nel lago di Cascinette era arrivata una balena”, e io gli chiedevo “ma nonno come faceva ad attraversare tutti i ponti”, ero piccolo e non sapevo che la balena vive nell’acqua salata mentre qui (nel lago di Cascinette) l’acqua è dolce, non ci pensavo perché non ero in grado di capire.
Comunque, so che questa balena era diventata grande mangiando i pesci del lago di Cascinette. Lì la gente portava a Filippo il pentolame da riparare. Egli vide una piazzola e disse “questo è il mio posto, dove nessuno mi rompe l’anima”. Salì su una montagnola vicino alla riva ed accese il fuoco, dopo averlo accesso capì che quella non era una montagnola di terra ma, … era una balena !
La balena iniziò ad andare su e giù per il lago e Filippo sopra gridava con le mani nei capelli “aiutatemi, aiutatemi, aiutatemi”, e mio nonno mi raccontava, ed io ero esterefatto, gli chiedevo “ma come fece a scendere ?” “la balena si avvicinò alla riva e Filippo scese giù, non sapeva nuotare, ma arrivò a riva e pote’ andare a casa dicendo “il lago di Cascinette non lo voglio più vedere neanche in fotografia”.
Le “masche” del nonno
Mio nonno mi raccontava che una sera vide veramente le masche, ebbe talmente paura che tornò a casa pallido come la neve.
Mi diceva “un giorno mi telefonò tuo zio (barba) dicendomi “vieni a darmi una mano, sono in ritardo con i lavori, è quasi inverno e dobbiamo ancora seminare il grano, vieni giù tutto il giorno così facciamo i lavori che son da fare”.
Allora mio nonno partì al mattino, che minacciava pioggia, prese anche l’ombrello e se lo mise al collo e andò dallo zio.
Lavorarono tutto il giorno poi, alla sera stanchi, si fermarono a cenare.
Dopo cena, ad ora tarda, mio nonno partì per tornare a casa, probabilmente aveva bevuto un bicchiere di più.
Siccome non pioveva, si legò l’ombrello sulla spalla come fosse un fucile e cominciò a prendere la strada.
Dopo un po’ si sentì prendere dalle spalle, “accidenti, c’è qualcuno che mi tiene fermo” si gira e non vede nessuno, riparte, fa qualche passo e si ripete la stessa cosa: qualcuno lo teneva per le spalle.
Arrivò a casa spaventato come non so cosa, mia nonna mi disse “oh, non lo riconoscevi dalla paura che aveva addosso”, le chiesi “ma nonna, sul serio vide le “masche” ?”, “avrà anche visto le “masche” per la strada, vi era un percorso lungo, si vede che una pianta qua, una paura là, un fosso da saltare …non capì più nulla, comunque tornò a casa tutto spaventato”.
Lì per lì, la nonna non mi disse di più, … ma qualche anno dopo le chiesi “nonna, il nonno disse che aveva visto le “masche”, ma dimmi cosa erano queste “masche”?, cosa vide effettivamente?”, e lei “ma sì che vide le “masche”! è questione che quella sera aveva bevuto uno o due o tre bicchieri in più, poi si legò l’ombrello a tracolla a mo di fucile e il manico dell’ombrello toccava i rami bassi delle piante che lo tenevano fermo.
Lui credeva che fossero le “masche” che lo tenevano, si girava e l’ombrello si staccava dai rami, poi andava avanti, un altro ramo dopo si attaccava di nuovo all’ombrello. Arrivò a casa che era tutto sudato dalla paura, ma si capisce che era sudato, dalla fatica che fece a strappare i rami. Se avessi visto: da qui alla casa dello zio non vi era più un ramo integro.”
Luciana ASSANDRI – classe 1928 – Burolo (To)
Il cuore della mamma
Questa è una storia che mi raccontò mia nonna, nata nel 1870.
In un paese sperduto sulla collina, viveva una mamma vedova, con un figlio scapolo.
Questo figlio era cattivo, un delinquente, un assassino, non aveva voglia di lavorare e oltre tutto maltrattava la mamma.
Non solo la maltrattava con brutte parole o cattive azioni ma, le dava anche tante botte e questa povera mamma cercava sempre di ammansirlo e di farlo tornare in sé per fargli capire che faceva male ma, lui continuava.
Una sera, una delle tante sere che si comportava male, che faceva a botte con tutti e si ubriacava, tornò a casa più cattivo del solito e si mise a litigare con la mamma.
La mamma, come sempre paziente, lasciò perdere. Ad un certo punto lui, fuori di sé, cattivo al massimo, prese un coltello e uccise la mamma.
Dal colpo inferto al petto uscì il cuore e dato che la casa era in collina e vi era una strada ripida per arrivarci, il cuore uscendo dal petto della mamma rotolò giù per la strada, velocemente.
Il figlio, cattivo, non contento di quella gravissima azione, corse dietro al cuore per “annullare” anch’esso. Mentre correva si inciampò, cadde e si fece male, il cuore della mamma si fermò e vicino al figlio gli disse “oh, figlio mio caro, ti sei fatto male?”
Le croci delle donne
Questa è una storia che mi raccontò mia suocera nonna Clara (Clarin) nata nel 1892.
Mi raccontava che in un paese lontano dall’Italia tutte le donne erano scontente, chi si lamentava di una cosa, chi si lamentava di un’altra.
Si misero tutte d’accordo e decisero di andare sulla piazza principale del paese.
Lì c’era nostro Signore.
Tutte portarono le loro “croci” dicendo al Signore: io ho questo, io ho quest’altro, a me hanno fatto questo, a me hanno fatto quest’altro e tutte raccontavano le loro pene.
Allora nostro Signore disse “donne scambiatevi le “croci” e poi andate a casa, tra una settimana tornate con le “croci” che vi siete scambiate e mi dite come state”.
Così capitò, dopo una settimana le donne tornarono sulla piazza e alla presenza di nostro Signore tutte insieme dissero “oh nostro Signore abbiamo sbagliato! È meglio che ci riprendiamo le nostre “croci” perché sappiamo già come son fatte e come sono pesanti”, così fecero.
Questo vuol dire che ognuno deve accettare le proprie pene con coraggio e con pazienza.
Il fidanzato e lo scheletro
Questa è una storia che mi raccontò il fratello di mio zio (marito della sorella di mia mamma).
Un ragazzo aveva una fidanzata in un paese vicino; un tempo vi era una grande rivalità tra paesi, i ragazzi del paese non volevano che le ragazze avessero dei fidanzati di altri paesi, altrimenti si faceva a botte e ogni sorta di cattiveria.
Al ragazzo però piaceva molto quella ragazza e sia i genitori di lui che i genitori di lei erano molto contenti del ragazzo perché era un lavoratore buono ed educato.
I due ragazzi si volevano molto bene.
Il ragazzo andava a trovare la fidanzata due o tre volte la settimana, in bicicletta, all’epoca le automobili le avevano solamente i ricchi.
Le strade erano senza luci, vi era solo il fanale della bicicletta che faceva poca luce inoltre, le strade non erano asfaltate, erano in terra con molte pietre e le biciclette saltavano qua e là sulle pietre.
Quando egli andava a trovare la fidanzata in bicicletta, sentiva cose strane dietro di lui, come sospiri, come aliti di vento, come una forza, un prurito alla schiena.
La cosa si ripetè due o tre volte, egli lasciò perdere, pensava “sarà il vento, avrò messo una maglia troppo pesante che mi procura disagio, sarà frutto della mia fantasia ?”
Dopo un po’ di tempo, le rispettive famiglie decisero, insieme ai due ragazzi di ufficializzare il fidanzamento.
La cosa a qualcuno probabilmente non piacque.
La sera che il ragazzo andò per accordare i preparativi con la ragazza, sentì qualcuno che lo tratteneva in strada, egli reagì pedalando più forte per andare avanti, però non potè, si fermò, guardò indietro: non vide nessuno; riprese la strada e … sempre la stessa cosa.
Dato che era un ragazzo coraggioso, si fermò, si girò indietro con la bicicletta e vide in lontananza una luce. Pensò che fosse qualche carrettiere che andava al mercato (un tempo si partiva presto e si faceva molta strada col carro, avevano una lanterna a petrolio che faceva luce).
Invece non si trattò di questo, in quanto, più lui avanzava più la luce indietreggiava. Allora si mise a pedalare al massimo delle sue capacità verso questa luce.
La luce andò a finire in una casa diroccata passando da una porta, egli aprì la porta e gli venne addosso uno scheletro.
Non si fece intimorire (anche se la cosa lo stupì parecchio), prese lo scheletro e scoprì chi era che lo manovrava per fargli paura.
Il ragazzo capì chi era stato a combinare il fatto.
Probabilmente era qualcuno del paese della ragazza che non voleva che sposasse il suo fidanzato.
Però, questa è una nostra supposizione.
Lui non rivelò mai chi fosse stato. La cosa finì così.
Adesso, che ho quasi 71 anni, il fatto mi fa pensare: sì, sarà andata così.
Oggi non crediamo più a queste versioni.
All’epoca ero una bambina, ebbi per molte sere tanta paura e pregai la mamma di starmi vicino: lei mi prese a dormire insieme e mio padre andò a dormire nel mio letto.
Oggi, ai bambini non insegnamo più ad avere paura, però si ha paura di altre cose.
Il ragazzo e il cane
Questa è una storia che mi raccontò mio suocero nonno Luigi (Luis), nato nel 1893.
Vi era una ragazza ad Ivrea, in periferia, che si chiamava Mariuccia, era una gran bella ragazza.
Vi era un ragazzo che era stato in seminario senza diventare prete, continuò però gli studi e divenne giornalista.
A questo ragazzo piaceva molto Mariuccia, andava a trovarla.
Delle sere, quanto usciva dalla casa di Mariuccia, nel portico al piano terra dove lasciava la bicicletta, trovava un grosso cane nero.
Questo cane lo accompagnava sino a casa senza manifestare alcunchè.
Dopo tre sere che succedeva la stessa cosa, il ragazzo incominciò ad insospettirsi e preoccuparsi di questa presenza misteriosa.
Tra sé persò che era ora di finirla, di dare una lezione al cane.
La sera seguente il ragazzo ebbe un piccolo litigio con Mariuccia ed essendo scosso per l’accaduto, si sentì oltremodo intollerante col cane.
Si ripetè il fatto, arrivato a casa, iroso, diede un poderoso calcio al cane il quale non fece lamenti; cosa strana in quanto i cani reagiscono oppure si lamentano per lo spavento o per il dolore.
Il ragazzo si stupì ancora pensando che si trattasse di un fatto misterioso.
Dopo qualche giorno sentì dire che il parroco della borgata si era rotto un piede.
Un fatto curioso, che fece riflettere il ragazzo.
A detta di mio suocero il fatto fù realmente accaduto.
La Quaresima di un tempo
Questa è una storia che mi raccontò mia suocera, nonna Clara (Clarin) nata nel 1892.
In tempo di Quaresima vi erano dei gruppi di ragazzi spavaldi che andavano in giro per il paese a suonare la cosidetta “put-put” che era una conchiglia nella quale si soffiava ed emetteva un suono che faceva “put-put” appunto.
Questo suono annunciava il tempo di Quaresima nel quale non si effettuavano battesimi, matrimoni e feste.
Inoltre, ad una certa ora della sera, vi era una specie di coprifuoco: nessuno usciva di casa salvo qualche uomo.
In quel periodo non si poteva andare in chiesa con le maniche corte o, per le donne, col capo scoperto, bisognava mettere un velo nero in testa. Bisognava avere le maniche lunghe fino alle dita, il vestiti lunghi e le calze (causet) nei piedi.
Le bande di ragazzi giravano intorno alle case suonando la put-put, tutte le sere nelle case, bisognava dire il rosario; questi ragazzi controllavano che questo fosse fatto.
Dove non sentivano pregare battevano forte negli usci e nelle finestre delle case finchè sentivano l’inizio delle preghiere.
Una altra cosa che non si poteva fare, in tempo di Quaresima (confermato da mia mamma che è vivente ed ha 92 anni) era stendere la biancheria di sera e lasciarla fuori di notte. Mia mamma ancora oggi ritira la biancheria la sera e se necessario, la stende nuovamente la mattina seguente, senza motivare il perché di tale atteggiamento.
Si diceva che “portava male” lasciare la biancheria stesa di notte, specie per gli indumenti dei bambini. Tale abitudine viene ancora oggi attuata dalle persone anziane.
Una altra osservanza scrupolosa era quella di recitare le preghiere al mattino appena svegliati. Se il prete veniva a conoscenza dell’inosservanza di tale precetto, nella messa grande della domenica, dal pulpito, diceva i nomi degli inosservanti.
A quel tempo, nei paesi, chi spadroneggiava era il prete.
Mia suocera diceva che quando gli uomini (partivano al levar del sole) tornavano alla sera dopo l’Ave Maria stanchi, se trovavano fuori dalla porta le scarpe del prete, non entravano in casa sino a che egli fosse uscito. Quando entravano, le donne lavavano loro i piedi.
Le donne erano sottomesse in vari modi non ultimo nell’eredità.
Teresa NEGRO – classe 1907 – Ivrea (To)
Dai nona cunta cula d’le masche (dai nonna racconta quella delle “masche”)
Mio fratello Giuseppe andò spasso una sera, arrivò ad un certo punto e si trovò davanti ad un grande cane che non lo lasciava passare.
Lui prese un bastone e cercò di picchiarlo ma lui non si mosse. Cosa fare ?
Riprese la strada e tornò a casa, ci raccontò questa storia: che paura avemmo noi più giovani di lui.
La storia del lupo
Mio nonno raccontava la storia del lupo.
Ci riuniva la sera, noi quattro fratelli, e … al luu, al luu ! (il lupo, il lupo!) veniva nel cortile e guardava dov’erano i bambini (i cit) per far loro paura.
Mio nonno ci diceva “adesso scappate, scappate” e noi avevamo una paura del diavolo e non uscivamo più la sera.
Così facendo, gli anni passarono e diventammo adulti.
I capelli di mia sorella
Mia sorella da giovane andò, una volta, in paese a prendere il pane per gli operai del fattore presso il quale abitavamo noi.
A piedi da Vignarossa – castello delle baronesse del Melle – fino al paese – Bollengo (To) – vi era un bel pezzo di strada.
Passò vicino ad un campo di granoturco dal quale saltarono fuori due uomini che le dissero “cita, cita, piura nen !” (bambina, bambina, non piangere!) e le tagliarono le trecce di capelli.
Tornò a casa col portafogli in mano e senza i capelli.
Era quello che voleva: chiedeva sempre alla mamma che le tagliasse i capelli.
La biancheria stesa di notte
Nonna racconta quella delle “masche”: non bisogna lasciare fuori la sera le lenzuola ? perché ?
Lasciavamo fuori la biancheria per farla asciugare, passò di lì una donna dicendo “per carità, per carità, ritirate quella biancheria ! Ci sono le “masche” che passano !”
Noi avemmo paura. Da allora ci siamo sempre comportati così, non lasciamo più fuori la biancheria di notte.
Le “masche” arrivano di notte!
Mio fratello e il cane (2^ versione)
Mio fratello andò, una sera, da una famiglia a fare una commissione, fece tardi.
Tornando a casa si trovò un cane davanti, disse “che strano, da dove arriva questo cane?” Prese un bastone per picchiarlo, si scostò, ma il cane continuò a seguirlo.
Mio fratello tornò a casa tremando, la mamma gli chiese “cosa ti è successo?”, “avevo un cane che mi seguiva. Mi hanno fatto paura !”
“S’ vet ca iera quai cos” (Si vede che c’era qualcosa).
A quel tempo eravamo tutti un po’ impauriti.
Ne combinavano di tutti i colori quei preti !
Domanda: “quindi erano i preti che facevano “la fisica” ?”
Risposta: “facevano “la fisica”, bisognava credere, la sera non si usciva … suonava l’Ave Maria … tutti a casa ! Chi usciva la sera trovava sempre “qualcosa” che impediva di andare avanti. E intanto siamo divenuti vecchi, io ho 92 anni! Capito ?”
Luciana ASSANDRI – classe 1928 – Burolo (To)
La bambina ammalata e la vecchia cattiva
Questa è una storia che mi raccontò mia nonna che era nata nel 1870 e si chiamava Maddalena (“Madlinin”).
In una grande borgata fuori dalla città, dove le case erano disposte a cortili chiusi, vivevano molte famiglie.
Lì viveva una vecchia donna vedova senza figli, era cattiva e non faceva amicizia con nessuno, se poteva faceva del male, godendone.
Caso strano, verso sera usciva e nessuno sapeva dove andava.
In quella borgata nacque una bambina. Tutte le donne le erano sempre intorno.
Questa bimba destava affetti, era la più piccola del rione.
Crebbe. Dopo qualche mese, cominciò ad ammalarsi e nessuno riusciva capire cosa avesse.
Le donne provarono delle cure con le erbe in quanto non vi erano i soldi per comprare le medicine.
Le provarono tutte, non sapevano più che fare.
Si rivolsero, chiedendo consiglio, alle vecchie della borgata: niente di fatto.
Un giorno passò di lì una signora che, vedendo quelle donne amareggiate per la misteriosa malattia della bambina, chiese loro “cosa avete buone donne ?”
“Abbiamo una bimba che sta per morire, non sappiamo cosa fare, non abbiamo i soldi per chiamare il medico, per noi è un lusso”.
“Vi mando il mio medico”.
Così fece, mandò il suo medico a visitare la bambina e questi disse “non capisco, questa bambina è denutrita, dovete darle una pappa con del pollo, delle uova”.
“Noi non abbiamo di queste cose, siamo povera gente”.
La signora disse “ci penso io, vi farò avere queste cose da casa mia, non preoccupatevi, questa bimba si riprenderà senz’altro, mi impegno a farvi avere il necessario”.
La bimba però non migliorava, anzi, peggiorava giorno per giorno.
Chiamarono anche il prete che le diede “l’olio santo”.
Erano tutti disperati, pregavano, non sapevano più che fare.
Un giorno passò di lì una vecchia che chiedeva l’elemosina, si fermava sempre in quel rione perché tutti le donavano qualcosa, chi una scodella di latte, chi una fetta di polenta, chi un pezzo di pane nero, lei era contenta.
Vide quella bimba e disse “brave donne vi insegno come fare a curarla”.
“Prendete due pali, metteteli incrociati in mezzo al cortile, poi a questi attaccate con una catena una grande pentola (“parola”) senza acqua e mettetele sotto tante fascine in modo che facciano un grande fuoco, più grande possibile. Disponetevi intorno al pentolone con dei bastoni e battete più forte che potete e cercate di sopportare anche il calore del fuoco”.
Così fecero, il bordo del pentolone divenne tutto rovinato a furia di battere.
Ad un certo punto sentirono un grido, era la vecchia cattiva.
Uscì di casa strappandosi i vestiti, tutti videro che era piena di lividi, ogni bastonata che le donne davano sul bordo della grande pentola era una bastonata sul suo corpo.
Era ferita e sanguinante.
Poco lontano scorreva un fiume, la vecchia dalla disperazione si gettò nel fiume e morì.
La mendicante disse che la donna cattiva faceva la magia nera, come usava un tempo.
La gente era in balia di queste cose.
La bambina il giorno dopo cominciò a star meglio e pian piano rifiorì e guarì.
Mia nonna mentre mi raccontava questa storia – che a sua volta l’aveva sentita da altre donne - avvertì in lei ancora un po’ di quella paura che provò allora.
Quella paura l’aveva trasmessa anche a me e ancora oggi, che la racconto, mi sembra di rivivere quei momenti quando lei la raccontava.
Fa piacere ricordare le cose dei nostri vecchi.
V. M. di 87 anni – Burolo (To)
Nota: non ha voluto che scrivessi il suo nome e non ha voluto che registrassi.
Mi racconta questa storia:
Il posto fresco delle civette
Da quando ero bambino, molto tempo fa, sulla nostra collina Serra grande c’era un posto, al limitare del bosco, dove si coltivavano i castagni da frutto (aubui).
Sotto queste piante l’erba era rasa e crescevano fiori e frutti di bosco.
Anche nella calura d’estate quel posto era sempre stranamente fresco.
Lì nidificavano le civette e nelle notti di luna chiara si potevano ammirare i loro occhi tondi brillare. Il loro canto notturno faceva sentire un brivido lungo la schiena.
Che posto strano era quello !
Le castagne di quegli alberi erano particolarmente dolci e morbile e avevano un singolare odore di zolfo.
Qualcuno diceva di aver visto lì il diavolo aggirarsi di notte e le civette precipitare al suolo come palle di fuoco.
Ora quel posto non c’è più, o meglio, è trasformato da circa 50 anni in vigneto: l’uva però continua ad avere uno strano odore di zolfo.
Storie del nostro bellissimo paese che vanno conservate. Brava Miryam :-) ... molto bella quella della donna cattiva faceva la magia nera.
RispondiEliminaUn caro saluto,
Giorgio