L’amico Franco Manocchia mi ha condotto a vedere la casupola abbandonata dove è vissuta e morta la strega Melinda.
E' una misera catapecchia della
montagna, il pavimento è di terra battuta, le stanze per modo di dire
sono tre, i mobili non esistono più tranne una rozza mensola dove una
volta stava il rozzo testone di legno per le fatture. Sul focolare,
ancora della cenere. nel letto del primo locale, dove lei dormiva, una
breccia fra le sconnesse tegole di cotto. Di là è volata fuori l’anima
di Melinda al momento della morte, tre anni fa, per vecchiaia, all’età
di 93 anni.
Pianse la mamma quando io nacqui, per giorni e notti mi hanno detto che pianse, e morì pochi mesi dopo, credo che morì proprio per questo, perché ero nata io figlia maledetta. Se fossi nata maschio, sarebbe stato tutto diverso, avrei spezzato la catena del destino; un bambino come tutti gli altri, un ragazzo, un uomo come tutti gli latri, contadino, muratore, cameriere, o sarei morto in guerra, chissà. E non sarei stata sempre così sola. Settima femmina di una famiglia senza maschi, nata al settimo mese avvolta nella placenta, sette e sette, numero della malasorte. Chi mai nacque più strega di me?
È uno sperduto paese di povera gente sul piedistallo del Gran Sasso, tra boschi, ripidi prati e magri campi. Fino a pochi anni fa né strade né luce. Una dozzina di case ai lati di una strada erta e fangosa. Altri casolari sparsi intorno. Niente che sorrida, se non qualche faccia di bambino, e il sole di settembre. L’ex-tana di Melinda sorge isolata, alta sopra il paese.
“Poveraccia” dice Manocchia. “La sua storia ricorda un po’ la Monaca di Monza. Fin da piccola condannata a fare la strega, come quella era stata condannata al convento. E non si poteva ribellar. Io l’ho conosciuta”.
Ma da bambina io non lo sapevo, nessuno mi aveva detto niente. Soltanto non capivo perché le altre bambine non giocavano con me, perché in chiesa le donne mi guardavano fisse. Mi guardavano perché ero una bella ragazza? No, mi guardavano perché ero disgraziata, ma la mia disgrazia non la conoscevo ancora.
Avevo quindici anni quando una comare mi disse: lo sai che sei una strega? Nata settima femmina il settimo mese, questo è il segno, sarai strega per tutta la vita.
Alla notizia feci un salto di gioia, invece che piangere. Così cominciò la mia vita grama. Felice di sapermi una strega perché un giovanotto di Penne proprio di quei tempi mi aveva avuto; sedotta e poi abbandonata; quindi partito per militare senza un bacio né un saluto né una cartolina postale. E io ero andata dalla comare con questa mia disperazione. Allora lei disse: brava, fagli subito vedere che strega sei, fagli una buona fattura a legare, vieni di qua che ti insegno io.
Mi insegnò. Quando lui tornò dal fronte nel suo guanciale del letto c’era nascosta la mia fattura, e in pochi giorni fu ammattito d’amore. Erano ciocche dei miei capelli, un bottone del mio corpetto, un pannolino sporco di sangue mio. Così tornò da me e in pochi giorni eravamo sposi.
Ma ero venuta al mondo disgraziata: poco dopo ch’era ripartito per la guerra, mi arrivò una carta dei comandi militari: siamo dolenti di... Insomma era rimasto ammazzato in battaglia.
Ebbi due gemelli, due bei maschietti. I miei figli! Appena diventati grandi, uno da una parte e uno dall’altra.
Una madre come me? Una madre strega? Via tutti e due per il mondo. Non li ho mai più visti, non hanno mai scritto, dovrebbero stare nelle Americhe, chissà.
“L’ho conosciuta” racconta Manocchia. “Una classica strega abruzzese senza niente di romantico: una che applica l’antico codice della stregoneria locale tramandato a voce di strega in strega: una che sa benissimo quando fa il bene e fa il male, che non si illude e sa di non poter evitare l’inferno. C’è per lei una sola salvezza possibile; se al momento della morte, quando il diavolo aspetta alla porta, qualcuno apre un buco nel tetto, per dove l’anima possa fuggire.
“Però era una buonissima donna. Avrà magari ammazzato qualcuno con le sue ingenue fatture, però so che era una buonissima donna, per quanto sembri assurdo. A 83 anni, quando l’ho conosciuta, i capelli erano tutti neri e lucidi come un corvo. Occhi a spillo, labbro inferiore sporgente, naso aquilino, sembrava la sorella di Dante Alighieri. Un’espressione bonaria e tranquilla. Tanto lei era pulita di persona, tanto era sudicia la sua casa. Zoppicava un poco, parlava soltanto in dialetto. La gente la odiava e la temeva; in fondo erano loro che l’avevano voluta così. Solo i bambini venivano a beffeggiarla, allora lei usciva con la scopa in mano. Ma senza rabbia. Finiva la sfuriata sorridendo.”
Il buon effetto della mia prima fattura fece il giro delle comari. Per il marito morto in guerra mi diedero una pensione, ma era così poca. I due piccoli avevano fame, avevo fame io. Mi diedi da fare.
Andai a Forcella da un magarone che operava con un trincetto da calzolaio e guariva torcibudella e cancro. Quello però era un mago buono, mi insegnò soltanto le arti del bene. Le fatture cattive le imparai da una vecchia di Monteprandone, provincia di Ascoli Piceno.
Poi me ne tornai al paese e cominciai a operare, non avevo ancora diciott’anni.
Da allora cominciarono a venire dai paesi vicini perché avevano bisogno di guarire, di guadagnare, di amare, di uccidere. Quando mi chiedevano del male, appena possibile rispondeva di no; allora gridavano: che razza di strega sei? Per le fatture buone mi davano a volontà: un mazzo d’agli, qualche carta da cento. Per le fatture a morte volevo mezzo maiale.
Un giorno arrivò un vecchio dalla montagna, era brutto, cattivo, padre di tre figli, voleva una fattura a morte per una biondina del suo paese. La conoscevo, aveva appena tredici anni, con due belle trecce, due occhi azzurri, un visino da baci. Il vecchio le si era attaccato alle sottanelle, lei lo aveva cacciato, lui l’aveva presa per forza. I genitori avevano fatto denuncia, adesso si aspettava il processo, il vecchio voleva la ragazzina morta perché non andasse più a testimoniare. Non era un delitto troppo brutto? Io gli risposi di no. Ma l’uomo impazzito cominciò a bastonarmi, gridava: se non obbedisci ti ammazzo. Mezza morta allora gliela feci, era però una fattura falsa, infatti la biondina neppure si ammalò.
“Melinda mi aveva preso subito in simpatia” dice Manocchia. “Fatto è che mi ha spiegato vari suoi sortilegi. Per esempio quello che fa diventare pazzi, o ciechi, o sordi; lei usava un faccione di donna scolpito in una radice d’olivo, con una criniera di capelli finti; e ficcava chiodi nella parte desiderata. Questo feticcio serviva anche per le fatture a trasferimento, che fanno passare una malattia da una persona all’altra. E spesso il risultato c’era. Probabilmente per effetto della suggestione. Se uno sapeva di essere stato affatturato, a forza di pensarci su c’era il caso che si ammalasse o impazzisse davvero.
“Per far soffrire d’amore invece Melinda chiedeva una fotografia dell’amato, un oggetto o indumento che fosse stato a contatto della sua pelle, un cuore di capretto e degli spilli. Il cuore lo metteva sopra la foto e poi lo trafiggeva con gli spilli. L’oggetto dell’amato doveva essere tenuto sotto il guanciale di lei.
“Le fatture a morte erano fatte di succo di radici bollite, infuso di lauro, sangue di porco lessato, sangue della donna che voleva uccidere o seme dell’uomo, svariate erbe e spezzatino di funghi velenosi; da versare, in dosi minime, per sette giorni, nel caffè della vittima. Melinda una volta me n’ha consegnato un campione. Era un intruglio nerastro che ho voluto dare a un laboratorio da analizzare. Sfido che aveva effetto, altro che arti magiche. Mi hanno risposto che era veleno bello e buono.
“Da quel giorno non l’ho vista più. Povera Melinda. È morta tre estati fa. Forse è stata l’ultima vera strega d’Abruzzi” nella voce di Manocchia c’è quasi un velo di rimpianto. “Le altre ancora vive, dai loro paeselli sono scese nelle città, all’Aquila, a Teramo, a Pescara, a Francavilla, si sono industrializzate, hanno aperti gabinetti di consultazione, mettono inserzioni sui giornali, piccole maghe imborghesite. È un mondo scomparso per sempre. E delle streghe defunte, come in questo paese, nessuno parla volentieri.”
Di fatture ne feci migliaia e migliaia nella lunga vita, molte per il bene, poche per il male e la morte. Però sempre povera in canna rimasi. La gente non mi amava né odiava, certo se uscivo nella notte di Natale quando c’è la caccia alle streghe, mi bruciavano viva, garantito. Io lo sapevo e mi chiudevo in casa; chiusa in casa più sola che mai, per tante e tante notti del Santo natale che mi ero ormai stancata di contarle.
Ma non era questo il mio dispiacere. La pena era che alla mia morte nessuno sarebbe venuto ad aprire il buco nel tetto, un foro, una porticina per l’anima mia.
Eppure al mondo c’è più buona gente di quello che si crede. Ero in letto senza più forze, che non mi potevo neanche muovere, però con gli occhi ancora aperti, e sentivo fuori il diavolo che camminava su e giù aspettando e batteva lo zoccolo impaziente perché ero così lenta a morire, quando sono arrivate due con una scala di legno, hanno rotto le tegole, hanno fatto un buco nel tetto, e la mia vecchia anima se n’è volata su come una farfalletta.
Così, adesso, io, dormo in pace. Grazie.
Pianse la mamma quando io nacqui, per giorni e notti mi hanno detto che pianse, e morì pochi mesi dopo, credo che morì proprio per questo, perché ero nata io figlia maledetta. Se fossi nata maschio, sarebbe stato tutto diverso, avrei spezzato la catena del destino; un bambino come tutti gli altri, un ragazzo, un uomo come tutti gli latri, contadino, muratore, cameriere, o sarei morto in guerra, chissà. E non sarei stata sempre così sola. Settima femmina di una famiglia senza maschi, nata al settimo mese avvolta nella placenta, sette e sette, numero della malasorte. Chi mai nacque più strega di me?
È uno sperduto paese di povera gente sul piedistallo del Gran Sasso, tra boschi, ripidi prati e magri campi. Fino a pochi anni fa né strade né luce. Una dozzina di case ai lati di una strada erta e fangosa. Altri casolari sparsi intorno. Niente che sorrida, se non qualche faccia di bambino, e il sole di settembre. L’ex-tana di Melinda sorge isolata, alta sopra il paese.
“Poveraccia” dice Manocchia. “La sua storia ricorda un po’ la Monaca di Monza. Fin da piccola condannata a fare la strega, come quella era stata condannata al convento. E non si poteva ribellar. Io l’ho conosciuta”.
Ma da bambina io non lo sapevo, nessuno mi aveva detto niente. Soltanto non capivo perché le altre bambine non giocavano con me, perché in chiesa le donne mi guardavano fisse. Mi guardavano perché ero una bella ragazza? No, mi guardavano perché ero disgraziata, ma la mia disgrazia non la conoscevo ancora.
Avevo quindici anni quando una comare mi disse: lo sai che sei una strega? Nata settima femmina il settimo mese, questo è il segno, sarai strega per tutta la vita.
Alla notizia feci un salto di gioia, invece che piangere. Così cominciò la mia vita grama. Felice di sapermi una strega perché un giovanotto di Penne proprio di quei tempi mi aveva avuto; sedotta e poi abbandonata; quindi partito per militare senza un bacio né un saluto né una cartolina postale. E io ero andata dalla comare con questa mia disperazione. Allora lei disse: brava, fagli subito vedere che strega sei, fagli una buona fattura a legare, vieni di qua che ti insegno io.
Mi insegnò. Quando lui tornò dal fronte nel suo guanciale del letto c’era nascosta la mia fattura, e in pochi giorni fu ammattito d’amore. Erano ciocche dei miei capelli, un bottone del mio corpetto, un pannolino sporco di sangue mio. Così tornò da me e in pochi giorni eravamo sposi.
Ma ero venuta al mondo disgraziata: poco dopo ch’era ripartito per la guerra, mi arrivò una carta dei comandi militari: siamo dolenti di... Insomma era rimasto ammazzato in battaglia.
Ebbi due gemelli, due bei maschietti. I miei figli! Appena diventati grandi, uno da una parte e uno dall’altra.
Una madre come me? Una madre strega? Via tutti e due per il mondo. Non li ho mai più visti, non hanno mai scritto, dovrebbero stare nelle Americhe, chissà.
“L’ho conosciuta” racconta Manocchia. “Una classica strega abruzzese senza niente di romantico: una che applica l’antico codice della stregoneria locale tramandato a voce di strega in strega: una che sa benissimo quando fa il bene e fa il male, che non si illude e sa di non poter evitare l’inferno. C’è per lei una sola salvezza possibile; se al momento della morte, quando il diavolo aspetta alla porta, qualcuno apre un buco nel tetto, per dove l’anima possa fuggire.
“Però era una buonissima donna. Avrà magari ammazzato qualcuno con le sue ingenue fatture, però so che era una buonissima donna, per quanto sembri assurdo. A 83 anni, quando l’ho conosciuta, i capelli erano tutti neri e lucidi come un corvo. Occhi a spillo, labbro inferiore sporgente, naso aquilino, sembrava la sorella di Dante Alighieri. Un’espressione bonaria e tranquilla. Tanto lei era pulita di persona, tanto era sudicia la sua casa. Zoppicava un poco, parlava soltanto in dialetto. La gente la odiava e la temeva; in fondo erano loro che l’avevano voluta così. Solo i bambini venivano a beffeggiarla, allora lei usciva con la scopa in mano. Ma senza rabbia. Finiva la sfuriata sorridendo.”
Il buon effetto della mia prima fattura fece il giro delle comari. Per il marito morto in guerra mi diedero una pensione, ma era così poca. I due piccoli avevano fame, avevo fame io. Mi diedi da fare.
Andai a Forcella da un magarone che operava con un trincetto da calzolaio e guariva torcibudella e cancro. Quello però era un mago buono, mi insegnò soltanto le arti del bene. Le fatture cattive le imparai da una vecchia di Monteprandone, provincia di Ascoli Piceno.
Poi me ne tornai al paese e cominciai a operare, non avevo ancora diciott’anni.
Da allora cominciarono a venire dai paesi vicini perché avevano bisogno di guarire, di guadagnare, di amare, di uccidere. Quando mi chiedevano del male, appena possibile rispondeva di no; allora gridavano: che razza di strega sei? Per le fatture buone mi davano a volontà: un mazzo d’agli, qualche carta da cento. Per le fatture a morte volevo mezzo maiale.
Un giorno arrivò un vecchio dalla montagna, era brutto, cattivo, padre di tre figli, voleva una fattura a morte per una biondina del suo paese. La conoscevo, aveva appena tredici anni, con due belle trecce, due occhi azzurri, un visino da baci. Il vecchio le si era attaccato alle sottanelle, lei lo aveva cacciato, lui l’aveva presa per forza. I genitori avevano fatto denuncia, adesso si aspettava il processo, il vecchio voleva la ragazzina morta perché non andasse più a testimoniare. Non era un delitto troppo brutto? Io gli risposi di no. Ma l’uomo impazzito cominciò a bastonarmi, gridava: se non obbedisci ti ammazzo. Mezza morta allora gliela feci, era però una fattura falsa, infatti la biondina neppure si ammalò.
“Melinda mi aveva preso subito in simpatia” dice Manocchia. “Fatto è che mi ha spiegato vari suoi sortilegi. Per esempio quello che fa diventare pazzi, o ciechi, o sordi; lei usava un faccione di donna scolpito in una radice d’olivo, con una criniera di capelli finti; e ficcava chiodi nella parte desiderata. Questo feticcio serviva anche per le fatture a trasferimento, che fanno passare una malattia da una persona all’altra. E spesso il risultato c’era. Probabilmente per effetto della suggestione. Se uno sapeva di essere stato affatturato, a forza di pensarci su c’era il caso che si ammalasse o impazzisse davvero.
“Per far soffrire d’amore invece Melinda chiedeva una fotografia dell’amato, un oggetto o indumento che fosse stato a contatto della sua pelle, un cuore di capretto e degli spilli. Il cuore lo metteva sopra la foto e poi lo trafiggeva con gli spilli. L’oggetto dell’amato doveva essere tenuto sotto il guanciale di lei.
“Le fatture a morte erano fatte di succo di radici bollite, infuso di lauro, sangue di porco lessato, sangue della donna che voleva uccidere o seme dell’uomo, svariate erbe e spezzatino di funghi velenosi; da versare, in dosi minime, per sette giorni, nel caffè della vittima. Melinda una volta me n’ha consegnato un campione. Era un intruglio nerastro che ho voluto dare a un laboratorio da analizzare. Sfido che aveva effetto, altro che arti magiche. Mi hanno risposto che era veleno bello e buono.
“Da quel giorno non l’ho vista più. Povera Melinda. È morta tre estati fa. Forse è stata l’ultima vera strega d’Abruzzi” nella voce di Manocchia c’è quasi un velo di rimpianto. “Le altre ancora vive, dai loro paeselli sono scese nelle città, all’Aquila, a Teramo, a Pescara, a Francavilla, si sono industrializzate, hanno aperti gabinetti di consultazione, mettono inserzioni sui giornali, piccole maghe imborghesite. È un mondo scomparso per sempre. E delle streghe defunte, come in questo paese, nessuno parla volentieri.”
Di fatture ne feci migliaia e migliaia nella lunga vita, molte per il bene, poche per il male e la morte. Però sempre povera in canna rimasi. La gente non mi amava né odiava, certo se uscivo nella notte di Natale quando c’è la caccia alle streghe, mi bruciavano viva, garantito. Io lo sapevo e mi chiudevo in casa; chiusa in casa più sola che mai, per tante e tante notti del Santo natale che mi ero ormai stancata di contarle.
Ma non era questo il mio dispiacere. La pena era che alla mia morte nessuno sarebbe venuto ad aprire il buco nel tetto, un foro, una porticina per l’anima mia.
Eppure al mondo c’è più buona gente di quello che si crede. Ero in letto senza più forze, che non mi potevo neanche muovere, però con gli occhi ancora aperti, e sentivo fuori il diavolo che camminava su e giù aspettando e batteva lo zoccolo impaziente perché ero così lenta a morire, quando sono arrivate due con una scala di legno, hanno rotto le tegole, hanno fatto un buco nel tetto, e la mia vecchia anima se n’è volata su come una farfalletta.
Così, adesso, io, dormo in pace. Grazie.
(Dino Buzzati, I misteri d’Italia, Oscar Mondadori, Milano, 1978)
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